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martedì 7 giugno 2011

A pieni polmoni.

Riporto integralmente l'articolo apparso su http://www.modusonline.it/35/conoscere.asp


A pieni polmoni


Sergio Harari, direttore dell’Unità Operativa di Pneumologia e Terapia semi-intensiva dell’Ospedale San Giuseppe di Milano.
Si chiama Bpco ed è poco meno frequente del diabete, soprattutto fra le persone con oltre 60 anni. Ha una causa precisa e rimovibile: il fumo, e una terapia che si sta arricchendo di farmaci e presidi.


Come il diabete, è estremamente diffusa (3,5 milioni di persone in Italia) è diagnosticata in ritardo e interessa soprattutto le persone sopra i 60 anni.
«È una malattia cronica, che possiamo cercare di controllare e rallentare ma non di guarire, ed è la possibile evoluzione di tre tipi di malattie: l’enfisema, la bronchite cronica, e meno spesso, dell’asma», spiega Sergio Harari, direttore dell’Unità Operativa di Pneumologia e Terapia semi-intensiva dell’Ospedale San Giuseppe di Milano.
Le somiglianze però finiscono qui, perché la Bronco-pneumopatia cronica ostruttiva o Bpco (Copd in sigla inglese) non è una malattia metabolica e, a differenza del diabete, ha una causa ben conosciuta: il fumo.
«Più del 70% delle persone in cura per Bronco-pneumopatia cronica ostruttiva (Bpco) è rappresentato da fumatori o ex fumatori alla diagnosi. Soprattutto nei Paesi più avanzati, dove l’inquinamento domestico o ambientale è ormai ridotto», afferma Vincenzo Bocchino, responsabile della Unità di Terapia sub-intensiva respiratoria nella U.O.C. di Pneumologia dell’Ospedale Monaldi di Napoli. «Il restante 30% circa dei casi è dovuto a una particolare sensibilità ad agenti inquinanti o al fumo passivo. Ma il dato da tenere bene a mente è che la Bpco è l’esito più probabile, più del tumore al polmone, per chi fuma».


Una diagnosi precoce è importantissima.
«Eppure i primi stadi della Bpco sono spesso sottovalutati», spiega Vincenzo Bocchino, «i sintomi sono due: la dispnea, un ‘fiatone’ insomma, che interviene ogni volta che si fa uno sforzo; ancora più specifico un attacco di tosse, soprattutto al mattino, con o senza catarro. Un fumatore o ex fumatore che rilevi anche solo uno di questi due sintomi in modo non episodico farà bene a parlarne subito con il suo medico, senza pensare che si tratti di una normale ‘tosse del fumatore’ o di una ‘bronchitina’ o di ‘un poco di asma’». In alcuni pazienti si nota un respiro sibilante, erroneamente interpretato come asma, o un’espirazione a labbra socchiuse a ‘soffio’. Intervenire per tempo può evitare che l’infiammazione si cronicizzi e diventi ostruttiva con un’ipersecrezione di catarro. Se non si interviene la dispnea si manifesta davanti a sforzi via via minori.


Il test
Al pari del diabete anche la Bpco ha un test ‘principe’: si effettua con un apparecchio chiamato spirometro riempiendo al massimo i polmoni e soffiando con forza l’aria inspirata in un tubo. La spirometria viene eseguita presso reparti specializzati e permette di misurare, principalmente, la Capacità Vitale Forzata (FVC) e il Volume Espiratorio Forzato nel primo secondo (VEMS) e, su questa base, stadiare la gravità della Bpco (lieve, moderata, grave, molto grave). Altri esami come la radiografia e/o la TC toracica, il test del transfer del CO (TCO), l’emogasanalisi arteriosa per valutare la quota di ossigeno e di anidride carbonica nel sangue, permettono di perfezionare la diagnosi e impostare la terapia. La terapia parte da un elemento fondamentale: smettere immediatamente di fumare. «altrimenti è davvero inutile andare avanti», commenta Vincenzo Bocchino.
In secondo luogo si tratta di «insegnare al paziente a respirare». Tutti respiriamo male e aiutando le persone a utilizzare i polmoni nel modo più corretto «si ottengono risultati molto importanti», commenta Harari. Il secondo caposaldo è l’esercizio fisico «che va prescritto adattandolo alle condizioni della persona», ricorda. È interessante notare come si stia diffondendo presso le persone con Bpco una sorta di ‘autocontrollo’. «Con un saturimetro portatile, un apparecchio ormai molto diffuso di dimensioni e costi molto limitati, la persona può valutare la concentrazione di ossigeno nel sangue e valutare se lo sforzo che sta facendo è adeguato o rischia di essere eccessivo per le sue capacità polmonari», nota Harari.
Anche perdere peso è utile, non da ultimo perché la ‘pancia’, tenendo alto il diaframma, impedisce di utilizzare da seduti l’intera capacità polmonare.



Vincenzo Bocchino, responsabile dell’Unità di Terapia sub-intensiva respiratoria nella U.O.C. di Pneumologia dell’Ospedale Monaldi di Napoli.


I farmaci
La parte farmacologica della terapia ha previsto fino ad ora due tipi di farmaci: i beta agonisti come broncodilatatori (da poco sono sul mercato farmaci che hanno una durata di 24 ore) e i corticosteroidi locali (inalati con i cosiddetti ‘spruzzini’) per ridurre l’infiammazione. «A questi capisaldi della terapia si sono aggiunti gli alfalitici, per le fasi più severe di malattia e, recentemente, gli inibitori delle fosfodiesterasi IV, utili nelle fasi medio-severe della malattia, soprattutto per ridurre il numero delle riacutizzazioni», nota Sergio Harari.
Gli obiettivi principali della terapia della Bpco, infatti, sono quelli di migliorare la sintomatologia, la tolleranza allo sforzo, lo stato di salute e, importante, ridurre il numero degli episodi acuti, le riacutizzazioni, indotti da malattie concomitanti, da sforzi o dall’incontro con sostanze irritanti per i polmoni. «Le riacutizzazioni, che spesso richiedono una breve ospedalizzazione in unità sub-intensive come quella che dirigo, non solo comportano un rischio in sé, ma coincidono con una perdita di funzionalità definitiva. Insomma sono uno ‘scalino’ che, una volta sceso, non si recupera più», commenta Vincenzo Bocchino.

Nelle fasi avanzate la Bpco può divenire molto seria.
La persona va in affanno davanti a qualunque sforzo: alzarsi dalla sedia o fare qualche passo a piedi. Nel suo sangue circola poco ossigeno e troppa anidride carbonica e il ventricolo destro del cuore, a seguito del maggiore sforzo richiesto, si ingrossa portando a un possibile scompenso della sua funzionalità.
In questa fase è importantissimo ricorrere all’ossigenoterapia e, nei casi più gravi, alla ventilazione non invasiva. Ieri parlare di ‘bombola di ossigeno’ era sinonimo di morte imminente, oggi con la ‘bombola’ si vive molto a lungo. «Da tempo la tecnologia ha fatto grandi passi avanti ed è normale che una persona con Bpco in fase avanzata ma controllata conviva per anni con il suo ossigeno a casa, dapprima utilizzandolo per alcune ore, poi anche per 18 ore al giorno, svolgendo una vita relativamente sedentaria ma accettabile e potendo perfino fare passeggiate fuori casa. È da tempo provato che l’ossigenoterapia ha una funzione decisiva nella durata – e non solo nella qualità – della vita nella persona con Bpco», sottolinea Harari.
«Visto che il decorso della Bpco è graduale, il nostro obiettivo è fare in modo che la perdita di capacità polmonare accompagni il normale processo di riduzione delle esigenze, tipico della terza età. Diventando anziani ci si muove di meno e in modo più cauto, si rifuggono volentieri gli sforzi», commenta lo pneumologo dell’Ospedale Monaldi.
Molte persone con Bpco hanno il diabete e molte persone con diabete hanno anche la Bpco, più per una questione statistica che fisiologica.


La persona con diabete corre un rischio cardiovascolare per l’occlusione delle arterie.
Questo si può sovrapporre alle difficoltà respiratorie causate dalla Bpco. Esiste anche una sovrapposizione negativa: i farmaci corticosteroidi utilizzati nella terapia della Bpco possono innalzare la glicemia, «anche se nell’utilizzo per inalazione questo effetto è molto ridotto», conclude Bocchino, che ha un Dottorato di ricerca in Fisiopatologia Respiratoria Sperimentale conseguito presso l’Università di Parma, «lo pneumologo può cercare, quando possibile, di ridurre il ricorso ai corticosteroidi che rimangono però un farmaco irrinunciabile, soprattutto in certe fasi della malattia».






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