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martedì 7 giugno 2011

La terza età. Quando comincia?


Riporto integralmente l'articolo apparso su http://www.modusonline.it/35/inchiesta.asp

Un terzo tempo della partita
La soglia della vecchiaia si è spostata di 20 anni creando generazioni di anziani in condizioni fisiche e intellettuali ottimali. La longevità aggiunge un terzo tempo nel quale le condizioni croniche non impediscono di esprimersi al meglio. Ma la società continua a vedere nell’anziano un problema e non una risorsa.


«La longevità è forse il più grande successo, la più bella eredità che lo scorso secolo ci ha lasciato». Domenico De Masi, sociologo, scrittore, docente ed ex preside di Scienze delle Comunicazioni alla Sapienza di Roma e visiting professor all’Università di San Paolo e di San Salvador in Brasile, è entusiasta. E ha ragione. In media, nei Paesi avanzati, l’attesa di vita è cresciuta di 12 anni dal 1950 al 2008. Oggi è di 77 anni e mezzo per i maschi e 84 per le femmine. L’inizio della vecchiaia – concordano gli esperti – coincide con i 70 anni per i maschi e 76 per le femmine e potrebbe spostarsi a 80 anni nel 2040. «Ogni tre-quattro anni possiamo dire che la popolazione guadagna, in media, un anno di vita», sottolinea Carlo La Vecchia, docente di Epidemiologia all’Università di Milano e, cosa più importante, è cresciuta in misura ancora maggiore l’attesa di vita ‘disability free’, priva cioè di condizioni e malattie in grado di ridurre sensibilmente l’autonomia dell’individuo. «In pratica oggi, nella maggior parte dei casi, si è ‘vecchi’ solo negli ultimi uno-due anni di vita», riprende De Masi che è nato nel 1938, «prima, quale che sia l’età, ci si trova quasi sempre in una condizione matura e in ottima o ragionevole padronanza delle proprie capacità fisiche e mentali». «Le persone anziane sono in condizioni di salute generale migliori rispetto a quando ho iniziato a fare il medico 30 anni fa», afferma Giulio Mariani, responsabile dell’Unità Operativa di Diabetologia dell’Ospedale San Carlo di Milano, «certo, hanno delle condizioni e delle patologie, ma molto meglio controllate rispetto ad una volta».


Carlo La Vecchia, docente di Epidemiologia all’Università di Milano e Capo del Dipartimento di Epidemiologia dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano.
Vecchi più tardi
«Oggi solo ai fini pensionistici si può parlare di ‘vecchiaia’ nella fascia di età che va dai 60 ai 70 anni», afferma Mauro Tettamanti, responsabile dell’Unità di Epidemiologia Geriatrica dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano che precisa però: «questo vale solo per i Paesi avanzati e anche in questi esiste un 10-15% di persone in difficoltà già a questa età».
Il normale declino delle capacità fisiche è tranquillamente coperto dalle tecnologie che ci consentono di spostarci e comunicare senza fatica. Sul fronte delle capacità cognitive, «a 65 anni, più di nove persone su 10 continuano tranquillamente a svolgere la vita che svolgevano a 55», afferma Tettamanti, «e lo stesso vale per i settantenni, solo a 80 anni vediamo un degrado. In questa fascia di età otto persone su dieci mantengono le capacità di base (vestirsi, mangiare, lavarsi), ma 5 su 10 hanno problemi a svolgere attività complesse: maneggiare soldi, orientarsi, usare bene un telefonino».
Il vero timore dell’anziano oggi non è tanto la salute in sé «quanto la paura di non essere più autosufficiente, e della solitudine, due situazioni spesso collegate. Ecco, è proprio questo che fa sentire l’anziano ‘vecchio’. Mio padre» sottolinea Giulio Mariani, «che a 96 anni è perfettamente lucido, ha paura più che di ogni altra cosa di perdere la sua autonomia».


Giulio Mariani, responsabile dell’Unità Operativa di Diabetologia dell’Ospedale San Carlo di Milano.
Anziani che ‘danno’.
Se la vecchiaia si è spostata di molti anni più in là, la percentuale di vecchi sulla popolazione sta scendendo. Detto in altre parole: la popolazione europea diventa... sempre più giovane! «Quindi è una assurdità affermare che l’invecchiamento della popolazione è un problema. Avere decine di milioni di persone che a 70 o 80 anni sono in buona forma fisica e mentale è una risorsa. Anche un bambino lo capirebbe», sottolinea De Masi, «la nostra società si regge in buona parte, già oggi, sugli ultrasessantacinquenni ma potrebbe approfittare molto meglio delle loro capacità».
«A tutti gli effetti la maggioranza degli anziani sono soggetti attivi e non passivi: ‘danno’ alla società molto più di quanto non ‘prendano’», conferma Giovanni Lamura ricercatore allo European Centre for Social Welfare Policy and Research dell’ONU di Vienna.
In Italia, dall’indagine annuale svolta dal Censis, emerge ad esempio che il 40% degli anziani continua a risparmiare, sempre il 40% degli anziani fornisce un aiuto economico alla famiglia dei figli, mentre solo il 25% lo riceve. Questo anche perché, in Italia, il 78% degli anziani (il 90% nei piccoli centri) è proprietario dell’immobile in cui abita e spesso anche di un altro immobile. È noto ad esempio – venne rilevato anche nella relazione del Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi – che il boom immobiliare del 2004-2007 è stato finanziato in misura consistente da trasferimenti di denaro fra le generazioni. Insomma l’anziano, favorito anche da una fase di continuo accrescimento nel valore delle sue proprietà, è più spesso il pilastro economico della famiglia.
A questo si aggiunge il ruolo degli anziani nella gestione della famiglia dei figli. «Oggi le aziende, soprattutto nel terziario avanzato, assumono tardi e mandano in pensione presto», ricorda Andrea Principi, economista presso l’Istituto Nazionale per la Longevità attiva e la non autosufficienza dell’Inrca di Ancona, «in compenso nella fascia di età centrale l’utilizzo della forza lavoro è massimo. Ma in quella fascia di età, diciamo fra i 30 e i 50 anni, oggi ci si sposa e si fanno figli; in un contesto quasi privo di supporti l’anziano diventa la condizione necessaria per una coppia che vuole avere figli». In una società in cui spesso entrambi i genitori sono costretti a lavorare, il ruolo dei nonni che si occupano dei nipoti è spesso fondamentale e a questo si aggiunge fra i pensionati più giovani l'assistenza ai genitori 'grandi anziani' in condizioni di fragilità.


Si diventa vecchi sempre più tardi. Ma questo è visto come un problema.


Bruno Giannolo, cardiochirurgo all’Ospedale Monaldi di Napoli.
Il dominio dei fattori di rischio.

Ma come si è arrivati a questa situazione, come si è aperta questa finestra che dona alle popolazioni europee 20 anni di vita in buona salute in più rispetto a solo 50 anni fa?
In primo luogo l’aumento della durata e della qualità della terza età si deve a miglioramenti per così dire ambientali. In una prima fase sono migliorate le condizioni igieniche delle abitazioni (acqua corrente e fognature), in secondo luogo sono migliorate le condizioni di lavoro: mansioni sempre meno faticose e usuranti e riduzione dell’inquinamento nei luoghi di lavoro. «Quando l’esposizione ai fattori di rischio ‘industriali’ non era controllata, i tumori ‘occupazionali’ erano presenti nel 2-3% della popolazione», afferma Carlo La Vecchia, Capo del Dipartimento di Epidemiologia dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri, «proibite le ammine aromatiche e l’amianto, è aumentata in generale l’attenzione a questi aspetti e possiamo dire che oggi questa è divenuta una causa residuale. Lo stesso discorso vale per i tumori da inquinamento che hanno raggiunto un picco negli anni ’60, quando rappresentavano una quota significativa dei tumori al polmone, ma ora è residuale. Soprattutto in questa ultima generazione abbiamo iniziato a vedere i miglioramenti dovuti alla riduzione del fumo».


Mauro Tettamanti, responsabile dell’Unità di Epidemiologia Geriatrica dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano.


Salvi in ospedale.
I risultati finora più significativi però, sono stati ottenuti in ospedale. Delle quattro ‘armi’ utilizzate nella lotta per la longevità, due hanno dispiegato i loro effetti: si tratta della riorganizzazione degli interventi di emergenza e del miglioramento nelle tecniche di assistenza in unità coronarica, delle tecniche chirurgiche e di emodinamica interventistica.
La gestione ospedaliera dell’evento acuto cardiovascolare – infarto o ictus – è uno dei volani del successo ottenuto in termini di longevità. Trent’anni fa l’infarto era spesso mortale e comunque invalidante, oggi è un evento nella vita. «Abbiamo avuto un netto miglioramento delle tecniche di terapia intensiva e di riabilitazione, il che ha permesso di ridurre drasticamente la mortalità nelle Unità di Terapia Intensiva e ottenere risultati migliori in termini di qualità e durata della vita dopo un infarto e un ictus», afferma Bruno Giannolo, cardiochirurgo all’Ospedale Monaldi di Napoli, un medico che ha al suo attivo circa 200 prelievi di cuore a scopo di trapianto, eseguendone in prima persona circa 80 ». I problemi di ritmo cardiaco sono stati in gran parte risolti con i pace-maker e i defribillatori, impiantabili senza aprire il torace.
L’evoluzione più visibile è quella degli interventi di angioplastica coronarica effettuati agendo attraverso le arterie e senza ‘aprire’ il paziente: oggi i cardiologi interventisti risolvono quadri di malattia coronarica ostruttiva che fino a ieri richiedevano interventi di by-pass. «Anche la stenosi aortica calcifica severa può essere trattata oggi in questo modo in un gruppo selezionato di pazienti. Noi cardiochirurghi, però, non rimaniamo certo senza lavoro perché oggi possiamo operare persone per le quali ieri lo stress dell’intervento poteva risultare fatale».
In cardiochirurgia, infatti, la sfida attuale è quella delle comorbidità. «Di rado la persona di 70-80 anni ha ‘solo’ un problema di cuore. Spesso ha anche altre patologie: il diabete, la bronchite cronica ostruttiva, una ridotta funzionalità renale, ecc. Ieri queste condizioni innalzavano in modo significativo il rischio chirurgico o addirittura sconsigliavano l’intervento: oggi possiamo intervenire con buone probabilità di successo grazie alle nuove tecniche anestesiologiche, chirurgiche e di gestione del post-intervento. Oggi operiamo al cuore – e parlo di interventi ‘pesanti’, pazienti di 70-80 anni – con tassi di successo del 90%. Possiamo poi operare patologie acute, che ieri erano gravate da un alto indice di mortalità, come la dissecazione dell’aorta o il difetto interventricolare postinfartuale, con risultati sempre più soddisfacenti».
Giannolo fa parte di un team di punta ma l’aspetto più interessante è che in questi anni si è visto un allineamento dei Centri di Cardiochirurgia ai livelli più alti. «Se ieri ci poteva essere una forte differenza fra gli ospedali più avanzati e gli altri, oggi tutte le cardiochirurgie italiane adottano le tecniche migliori e seguono linee guida che coprono sia l’atto chirurgico vero e proprio sia la gestione di tutto il processo pre e post intervento», nota Giannolo. Fanno eccezione solo i trapianti di cuore effettuati in pochi centri in Italia: noi al Monaldi di Napoli ne facciamo 30-40 all’anno su 200-300 eseguiti in tutta Italia. Il risultato è che oggi l’intervento al cuore, soprattutto se di elezione (programmato su un paziente a rischio ma in condizioni non acute) «è perfino sottovalutato dal paziente: parlo con persone che vivono l’intervento cui stanno per essere sottoposti come fosse una ‘passeggiata’», esclama Giannolo.


Terapie farmacologiche a vita.
«Curiamo di più e curiamo meglio le persone, abbiamo maggiori capacità diagnostiche, riusciamo a guarire o a ‘fermare’, rendendole croniche, patologie che ieri erano acute e gravi, assistiamo oggi a una diminuzione delle malattie cardiovascolari e metaboliche, questo lo dobbiamo anche alla diffusione di terapie preventive capaci di tenere sotto controllo i fattori di rischio», sottolinea Giulio Mariani, «anti aggreganti, anti ipertensivi, farmaci che tengono sotto controllo colesterolo e trigliceridi e, ovviamente, farmaci per migliorare il profilo glicemico». Certo, visto che i fattori di rischio sono diversi: pressione arteriosa, coagulabilità del sangue, eccesso di colesterolo LDL e di trigliceridi, e che spesso la stessa persona ne deve correggere diversi, questo significa assumere tre, quattro, cinque principi attivi ogni giorno, spesso in più pastiglie, sostanzialmente per tutta la vita. E questo non per calmare un dolore o per guarire da un episodio acuto ma solo per scongiurare un pericolo. Se l’utilità di questi farmaci è nota, «proporre la terapia per una condizione cronica richiede un approccio terapeutico completamente diverso: prescrivere è un attimo, basta compilare una ricetta, ma è difficile convincere il paziente a seguire la cura proposta», ricorda Giulio Mariani, «occorre convincerlo, motivarlo a proseguire, concordare con lui i tempi e i modi della terapia». Il medico non può più contare sull’autorità del suo status come una volta, «deve acquisire altre capacità, conoscere e praticare l’educazione terapeutica. In questo senso la Diabetologia italiana è sicuramente all’avanguardia».





Andrea Principi, sociologo presso l’Istituto Nazionale per la Longevità Attiva e la Non Autosufficienza dell’Inrca di Ancona.
La vita è una scelta.
Se le terapie farmacologiche preventive sono divenute di largo uso negli anni ’90, solo in questo decennio la popolazione ‘sana’ ha iniziato a modificare lo stile di vita nell’ottica di prevenire il rischio cardiovascolare ed è recentissima l’attenzione al ruolo degli stili di vita nella prevenzione dei tumori. «Agendo sullo stile di vita possiamo evitare il 40% delle morti per tumore», afferma Carlo La Vecchia, Capo del Dipartimento di Epidemiologia dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano. «Prima di tutto riducendo il fumo che da solo è la causa di un quarto delle morti ‘prevenibili’: i risultati già si vedono e si vedranno in prospettiva. Fra 50 anni solo una persona su 10 fumerà».
È recente invece l’attenzione all’alimentazione come fattore di prevenzione dei tumori (molte fibre e poca carne rossa sono correlati a un minor numero di tumori in tutto il tratto gastrointestinale) mentre sta muovendo i primi passi l’attenzione all’insulinoresistenza e all’obesità anche in una ottica di prevenzione oncologica.
«Per contrastare patologie a carico del cuore e dei vasi sanguigni è buona norma adottare uno stile alimentare sano ed equilibrato, affiancato da una regolare attività fisica», ribadisce il primario di diabetologia del San Carlo, che sottolinea come l’interesse della classe medica sia oggi concentrato sulla prevenzione della malattia metabolica: «si tratta di una patologia subdola che, se non diagnosticata e affrontata per tempo, rischia di minare dalle fondamenta il sistema cardiovascolare». Sulla malattia metabolica e in generale su quasi tutti i fattori di rischio cardiovascolare, l’effetto delle modifiche degli stili di vita è pari o superiore a quello delle terapie farmacologiche. Un esempio fra tutti: è provato come una regolare attività fisica, anche solo mezz’ora di camminata a passo svelto ogni giorno, abbassi la probabilità di sviluppare diabete e ipertensione ma diminuisca anche il rischio di sviluppare tumore e la gravità della prognosi e riduca il rischio di cadute in persone che soffrono di osteoporosi, ottenendo effetti sull’umore e sul mantenimento della capacità di memoria e cognitive almeno pari a quelli dei migliori farmaci.
La Medicina però non può fare tutto. «Dobbiamo affrontare l’ambito dei fattori di rischio per così dire socio-ambientali: la povertà, l’urbanizzazione, la marginalità sociale. La prevenzione non può agire solo sui fattori di rischio individuali, ma deve affrontare anche quelli più ampi con politiche di intervento di tipo socio-sanitario», ammonisce Mariani.


Giovanni Lamura, ricercatore allo European Centre for Social Welfare Policy and Research dell’ONU di Vienna.
Un terzo tempo tutto da giocare.
Lo scenario più probabile per un cinquantenne è quello di avere davanti a sé almeno 25 anni, probabilmente anche 30, di vita in buona salute, un periodo di tempo almeno uguale a quello che ha dedicato alla sua formazione e alla costruzione di una carriera e di una famiglia. «L’aumento continuo della speranza di vita registrato negli ultimi decenni è un fenomeno epocale che meriterebbe di essere affrontato con molta più attenzione», conferma Domenico De Masi «chi nasce oggi ha potenzialmente di fronte a sé una vita suddivisa in tre fasce temporali praticamente equivalenti: quella della formazione di base, che si prolungherà sempre più fino a sfiorare i trent’anni, quella della vita attiva e quella della terza età, che potrebbe protrarsi anch’essa per tre decenni e, sempre più frequentemente, verrà trascorsa in buone condizioni fisiche». Non si tratta di ‘cancellare le pensioni’ ma di riportarle al loro significato originale. Quando Otto von Bismarck ‘inventò’ il welfare state, il diritto alla pensione veniva acquisito a partire dal 65° anno di età. A quel tempo l’attesa di vita media era di 45 anni. Mantenendo lo stesso principio oggi l’età di pensionamento dovrebbe essere di 98 anni.
In realtà i sistemi pensionistici disegnati negli anni ’60 e ’70 non solo mantennero ma addirittura anticiparono l’età pensionabile portandola, in molti Paesi, a 60 anni. «Il che era corretto quando si parlava di persone che avevano iniziato a lavorare subito dopo la scuola dell’obbligo compiendo mansioni faticose e usuranti in ambienti malsani», ricorda De Masi, «oggi si inizia a lavorare più tardi, troppo tardi, in ambienti assolutamente normali e con mansioni affatto faticose». Si arriva alla pensione quindi in piena salute, «soprattutto se si considera che buona parte delle mansioni in una società avanzata come la nostra, sono ‘intellettuali’, come si diceva una volta, o ‘creative’, come preferisco affermare io. A 70 anni e a 80 siamo perfettamente in grado di svolgerle al meglio. Se l’attività davvero a valore aggiunto oggi è quello che io definisco l’ozio creativo, è assurdo concentrarla nella fase centrale della vita, quel periodo fra 30 e 50 anni nel quale le persone – e non solo le donne – dovrebbero concentrarsi sul loro ruolo di genitori».
De Masi è favorevole a una riduzione dell’intensità e a un’estensione della vita attiva. «Nella maggior parte delle mansioni venti ore a settimana sono più che sufficienti», afferma, «e questo ritmo è compatibile sia con le esigenze del trentenne sia con quelle del genitore e dell’anziano o ex anziano di 70 anni e più».


Quasi un terzo della vita... in panchina.
In effetti non è pensabile che una società che ha realizzato il suo maggior risultato mantenendo sana e attiva una generazione di anziani non vecchi, lasci inutilizzato questo tesoro non sfruttandone le potenzialità, accettandone i costi pensionistici, e soprattutto i costi sociali e sanitari legati alla forzata inattività. «Il welfare che oggi cerchiamo di riformare è una costruzione creata trenta anni fa, pensando agli anziani di 50 anni fa», riassume Andrea Principi, economista esperto di welfare state, «che avevano alle spalle le privazioni della guerra, lavori usuranti e faticosi, quasi sempre avari di soddisfazioni. Ancora oggi non solo l’età minima al pensionamento, ma l’intero quadro giuridico, legale e culturale è rimasto legato a un anziano che non c'è più o quasi».
L’adeguamento dell’età pensionistica all’attesa di vita rischia di essere l’unica misura di ‘age management’ presa da molti Paesi. Limitarsi a spostare l’asticella mantenendo una cesura secca fra mondo del lavoro e pensione sarebbe sbagliato. Il ricorso a forme di part time fortemente incentivate dallo stato permetterebbe di quadrare il cerchio. Il lavoratore – a parità di contributo reale dato – peserebbe meno sull’azienda. L’anziano avrebbe la possibilità di affiancare al lavoro altri interessi o di riportare il peso del lavoro entro limiti che ritiene gestibili. La domanda non è “quanto ci costa l’anziano”, ma “di cosa ha davvero bisogno e che cosa può offrire e vuole offrire alla collettività”. Le risposte a queste domande possono essere sorprendenti.









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